Monte Serrone, Balzo di Ciotto e Tre Confini

Un superbo anello sopra le montagne che chiudono Vallelonga


E’ da tempo che Giorgio “minaccia” una lunga escursione al Serrone in terra del parco d’Abruzzo, ancora più insistentemente da quando poco più di un mese fa siamo saliti sul Marcolano e ce lo siamo trovato lì davanti quando siamo sbucati in cresta; Il Serrone è diventato poi quasi furore quando la prima organizzazione si è infranta a due giorni dalla data per l’indisponibilità di due di noi, a quel punto il Serrone s’aveva da fare a tutti i costi, parafrasando il romanzo dei romanzi del buon Manzoni. Ed è così che nel progetto del Serrone si è aggiunto il Balzo di Ciotto come una ciliegia su una torta di panna e visto che da quelle parti, una volta che si è su non si scende ovunque ma solo per sentieri tracciati, andare avanti o tornare indietro era più o meno la stessa cosa ed anche il non vicino Tre Confini si è aggiunto alla lista in maniera naturale, quasi scontata. Chi voleva camminare era servito! Lo stratega del gruppo aveva appena concepito un signor anello di grandissima soddisfazione e quello che segue è il racconto di questa travagliata programmazione trasformatasi in entusiasmante cavalcata. La sveglia suona presto, alle cinque di mattina di un giovedì rubato al lavoro; dopo una frugale lavata di faccia sono già in macchina per recuperare Giacomo, nel mentre mi accorgo di un messaggio di Stefano, uno dei quattro, che anche stavolta ha dovuto rinunciare all’ultimo momento per problemi sul lavoro; inviato nella notte non ci ha dato modo di realizzare, alle cinque del mattino era troppo tardi per cambiare progetto, peccato era una bella occasione per ritrovarsi. Rande vous al solito parcheggio Metro della Rustica con Giorgio, l’imbocco dell’autostrada è lì dietro, Il viaggio è breve, usciamo al casello di Avezzano, seguiamo le indicazioni per Luco dei Marsi, aggiriamo la piana di Avezzano e l’imbocco di Vallelonga è cosa quasi semplice; tra pochi cartelli segnaletici utili, rotatorie in sovrannumero e strade sovra dimensionate la piana ci si stringe addosso e le montagne dai fitti boschi si accostano alla strada che si fa via via più sottile. Superiamo Collelongo, poi dopo pochi chilometri anche Villavallelonga sfila velocemente, ora davanti c’è solo una stretta strada che attraversa un bosco, gli orizzonti si sono abbassati, la valle davanti non ha sbocco, finisce negli stretti altipiani a ridosso delle montagne di Pescasseroli. Uno slargo nel bosco ed uno grosso spiazzo sulla stradina asfaltata preannunciano il piccolo santuario della Madonna della Lanna; ancora un paio di chilometri e sulla destra si apre una radura dove entriamo e parcheggiamo l’auto. Da qui sulla destra continua una carrareccia verso fonte Astuni ed il vicino rifugio del parco, la utilizzeremo al ritorno per chiudere l’anello dopo essere precipitati a valle dal rifugio di Coppo dell’Orso. Per prendere il sentiero Q2 che seguiremo, dovremo percorrere quasi tre chilometri di stradina asfaltata fino ai prati d’Angro, è il pegno che dovremo pagare per poter compiere un anello perfetto in cui mai verrà ricalpestato un metro di terreno già percorso; il passo è veloce, il dislivello quasi inconsistente, intorno sfilano secolari faggi, boschi fitti, fioriture multicolori e a sinistra la costa che sale alla vetta del Marcolano, i prati d’Angro arrivano velocemente. Ai prati d’Angro, nei pressi della fonte e di alcune postazioni pic-nic, due grossi blocchi di pietra sbarrano la strada a sancire un contenzioso tra magistratura e comune di Villavallelonga: Il contendere è il nastro di asfalto di recente posa da lì in avanti fino al rifugio che dista ancora un paio di chilometri. Sulla testata della fonte una bandierina sancisce l’inizio del sentiero Q2, alle sue spalle sulla destra, una leggera traccia tra l’erba è l’unica che ha parvenza di sentiero; entra nel bosco, ora più ora meno sembra più definito, le tracce sono di quattro ruote che la percorrono, l’assenza di segnali ulteriori un po’ ci spiazza e ci rallenta ma la carta non sembra fornire altri suggerimenti per cui continuiamo. A dire il vero la carta un po’ ci confonde, siamo inequivocabilmente nel Vallone del Tasseto ma il numero del sentiero che distingue il percorso sulla carta è contrassegnato dalla sigla R8, immaginiamo il solito errore delle carte, ormai ci siamo abituati. Quando il bosco si fa alto e importante anche il sentiero diventa più definito, ogni tanto su sparuti alberi qualche bandierina assicura che quella che sembra essere una strada di servizio è a tutti gli effetti un sentiero. Il bosco è alto, rado e pulito la vegetazione fresca e nuova, il sottobosco a tratti è una grande fioritura, tappeti e tappeti di bianchi Cerastium (è insolito trovarli nel sottobosco ma a nulla altro sono riuscito ad associare questa elegante corolla, probabilmente è uno delle tante piante che compongono la famiglia) colorano, ravvivano e incuriosiscono, nessuno di noi aveva mai avuto modo di vedere fioriture così intense e continue all’interno di un bosco, sembra di passeggiare in un giardino di qualche enorme villa. Percorriamo qualcosa in più di un paio di chilometri in cui non saliamo di un metro di altezza se non per brevissimi tratti e sulla sinistra si discosta un sentierino, sull’albero al vertice dell’incrocio la bandierina con l’indicazione Q2 ci conforta, per fortuna lo abbiamo intravisto, non è marcato e il tratto in piano, veloce e ampio potrebbe farlo saltare facilmente. Il tempo delle chiacchiere è finito, il nuovo tracciato si inerpica fin da subito, il valico di Schiena d’Asino, la sella che è riportata sulle carte e che dovevamo raggiungere a quota 1700 si stava avvicinando velocemente; di strada ne avevamo già fatta tanta senza aver salito un metro, prima o poi ci aspettavamo una rapida e ripida inversione di tendenza. Il sentiero sale ripido nel bosco, molti sono i tornanti e molti i cambi di direzione, in alcuni momenti è quella dei costoni del Serrone che si intravedono tra il fogliame, in altri ci si allarga allontanandosi dall’obiettivo, momenti di traversi di bei sentieri sottili e altri passaggi in ampi fossi senza traccia in cui devi solo affidarti ai segnali sparuti sugli alberi. Dopo un’oretta di salita senza sosta si svalica, il bosco non abbandona nemmeno la sella e l’orizzonte è presso che vietato, il sentiero, si divide in due, prendendolo a sinistra si continua verso i prati di Iorio e verso il rifugio omonimo, verso destra si rimane sul Q2 iniziale; ci si alza con qualche tornantino ripido per poco ancora e poi il Q2 si abbassa per entrare nella valle di fronte che infilandosi tra i boschi attraversa il versante e conduce verso la val Comino. Sulla carta non esiste sentiero diretto al Serrone, seguendo evidenti tracce sul terreno continuiamo ancora in salita per pochi minuti fino ad uscire dal bosco, le prime radure introducono alla bella e lunga dorsale che si alza dal valico della Schiena d’Asino, oltre, in alto, si intuisce appena la cima del Serrone, il nostro primo obiettivo. Pur non essendo marcata da nessun segnavia, a terra una piccola traccia non da adito a dubbi; questa insieme al profilo davvero a schiena d’asino della tonda cresta e la leggera e costante pendenza contribuiscono a darci la sensazione che la via della vetta sia davvero questa; si sale ora fuori dai boschi e finalmente si respira, gli orizzonti si allargano, del rifugio Di Iorio è visibile solo il tetto, il resto del panorama sono dorsali boscose e valli che si rincorrono con assoluta continuità. Saliti sulla prima gobba della dorsale ci si spalancano davanti i brecciai del Serrone e del Balzo di Ciotto e tutta la cresta rocciosa che li unisce, da qui sono ancora più belli e imponenti di come li avevamo visti dal Marcolano. Per raggiungere il Serrone la via è tutta davanti, ancora un pezzo di dorsale, quì quasi piatta, fino allo spigolo che sale scomposto in cresta e che potrebbe essere anche salito direttamente cercando di districarsi tra una roccia non proprio stabile e consistente. All’attacco dello spigolo il sentiero scende di alcune decine di metri e prende a tagliare il ghiaione, il circo glaciale del Serrone, su una pietraia stabile prima in piano e poi alzandosi repentinamente la traccia attraversa tutto l’anfiteatro e dove finisce il pietrisco si inerpica fino in cresta ad un centinaio di metri dalla vetta. Il momento in cui si svalica e si raggiunge la cresta è sempre carico di aspettative, si apre un nuovo mondo, si aprono altri orizzonti e quando ci sei per la prima volta il pathos è sempre tanto; ad attenderci invece c’erano delle nubi montanti, veloci salivano dalla valle opposta verso di noi e quasi a darci appuntamento ci hanno soffiato in faccia tutta la loro fredda umidità. Inutile fermarsi per studiare la geografia di quello che era davanti, solo poetici fiotti di nuvole e più in basso compatti muri grigiastri facevano parte dell’orizzonte, prendiamo a salire verso la vetta la cui croce era ormai ben in vista; bello però l’impatto della cresta dietro di me, le nuvole, le nebbie non riuscivano ad oltrepassare il versante, salivano e si sfilacciavano sulla linea di cresta creando un muro quasi invisibile dove Giorgio, da poco sbucato dal ghiaione, sembrava proiettato come in un film in bianco e nero. Uno squarcio tra le nuvole apre un varco in cui compare il lago di Posta Fibreno, è poco ma almeno geograficamente una collocazione l’abbiamo trovata, si richiude immediatamente. Dalla vetta del Serrone gli orizzonti si aprono solo verso Est, il Marcolano e tutte le creste che abbiamo “sciupato” solo un mesetto prima erano tutte ben riconoscibili, fino a Rocca Genovese e monte di Valle Caprara. La serie di coste e avvallamenti boscosi che avevamo attraversato la mattina erano una confusione di dorsali che invadevano la valle ai nostri piedi, appena percettibile la piana dei prati d’Angro da cui siamo partiti. Verso Nord, tra le nebbie ora più fitte ora meno, sempre a non oltrepassare la linea di cresta, impressionava la lunga dorsale che avevamo davanti; le condizioni meteo peggiorate non ci hanno fatto trattenere gran che in vetta e siamo ripartiti quasi subito alla volta di Balzo di Ciotto. Una sorpresa il tratto di cresta tra queste due vicine montagne, tra saliscendi non accentuati si inseguivano interessanti percorsi rocciosi, a tratti anche molto sottili, Il tono dell’escursione andava cambiando completamente; c’era poco da vedere intorno, in compenso c’era molto da godere, capiamoci bene, ogni tratto complicato o sottile aveva la sua opzione “B” per essere aggirato, ma dopo tanto bosco un po’ di roccia e qualche bel passaggio alzavano il tono del camminare. La salita al Balzo di Ciotto è un lungo pendio inclinato, ad Est la cresta scende repentina verso il ghiaione sottostante mentre verso Ovest un pendio non troppo accentuato tra prati e rocce conduce in vetta; alla doppia vetta a dire il vero, discoste poche centinaia di metri una dall’altra sono unite da un tratto uniforme senza avvallamenti o asperità, ognuna è sormontata da un ometto a sancirne la sommità, l’ambiente nel complesso non restituisce la stessa valenza a questa montagna che avevamo percepito rocciosa guardandola di profilo o da davanti il mese scorso. Da sopra è davvero poco interessante la vetta di questa montagna, ci ritroviamo quindi a scendere senza quasi esserci fermati un momento; bellissimi sono invece gli scorci che si godono guardando indietro verso il Serrone, quei tratti di cresta che anticipano il Balzo di Ciotto, le ripide pietraie sottostanti e soprattutto la piramide del Serrone, come da qui appare, sono bellissimi scorci di montagna. Scendendo dal Balzo di Ciotto, la sella sottostante che dobbiamo raggiungere è un bel perdere quota, circa duecento metri, ed altrettanti ne dovremo risalire subito dopo, siamo poco oltre la metà del nostro anello, discutiamo sulla posizione del Tre Confini che dovremo raggiungere e tra speranze e illusioni conveniamo che la vetta oltre la profonda sella non è affatto la nostra prossima meta; il Tre Confini dovrebbe essere alle spalle di quella cima senza nome sulle carte, forse ne intravediamo appena la sagoma, meglio non pensarci tanto appare ancora lontana. Raggiungiamo la sella e prendiamo a risalirla, nei pressi di un piccolo gruppo di faggi, ultima lingua del bosco che sale dalla valle, in un tratto al riparo dal vento ci fermiamo per il pranzo, nel frattempo si erano fatte le 14. Davanti, verso Ovest oltre la valle sottostante, come ormai costantemente da quando siamo vagabondi sul Balzo di Ciotto, c’abbiamo la grande “dolina” di Campi di Grano, un grande imbuto erboso che scende dalla cima del monte Cornacchia. Una sosta un po’ più lunga del solito ci serve per ricaricare le pile, rimane ancora molto da camminare e da salire a guadare bene la vetta che abbiamo di fronte; oltre dovremmo poter vedere il rifugio di Coppo dell’Orso e cominciare a pensare alla discesa. Giorgio, che quest’inverno è già salito al Tre Confini ha una bella intuizione, aveva collocato bene la cima che avevamo di fronte come quella più a Sud del circo detritico del Tre Confini, non serviva salirlo direttamente, sarebbe stato sufficiente aggirarlo fino a raggiungere la cresta che avevamo lontana di fronte, la direzione era quella del non lontano monte Cornacchia. Senza perdere quota, anzi salendo leggermente abbiamo aggirato la piramide che avevamo davanti, siamo arrivati in cresta esattamente dove Giorgio aveva immaginato, sul bordo che delimita il sistema roccioso del Tre Confini, il rifugio di Coppo dell’Orso era dalla parte opposta nella sua splendida posizione a dominare l’omonima valle boscosa ed il ghiaione spettacolare che la chiudeva; non rimaneva che avvicinarsi e salire il poco dislivello che ci separava dalla vetta del Tre Confini. Alla fine ci siamo trovati in vetta senza compiere salti repentini di dislivello, senza nessuno strappo, e soprattutto con la consapevolezza che non c’era più nulla da salire. Il sole si è rifatto strada tra le nuvole esattamente mentre eravamo in vetta al Tre Confini, forse la cima delle tre che ci siamo goduti di più. Riprendiamo a percorrere il tratto di cresta verso Nord che ci separa dalla discesa verso il rifugio e verso valle; il rifugio, chiuso in questo periodo, è il luogo ideale per godersi il ruvido e ampio anfiteatro ghiaioso del Tre Confini, posto su un ampio sperone verde sul limitare della valle prima che precipiti è davvero un posticino da favola in cui varrebbe davvero la pena provare a passarci una notte e godersi la successiva alba. Si è fatta nel frattempo “una certa”, sono passate le tre del pomeriggio e ci rendiamo conto che la giornata, con il rientro a Roma compreso, sarà ancora lunga, il filo di sentiero che si allunga alle spalle del rifugio segna l’inizio della via del rientro, sembra perdersi nel vuoto sottostante dei boschi profondi di Vallelonga, poi vira a sinistra e si perde nel bosco; dopo un primo tratto pianeggiante inizia a scendere vorticoso attraversando un primo basso bosco molto intricato e poi un secondo di alte e rade colonne di faggi, costantemente precipita verso valle con tratti di accentuata pendenza. Favoriti dalla pendenza, dalla fretta per il rientro e da un fondo agevole di fogliame scendiamo veloci, in certi momenti è più semplice trotterellare, quasi correre che trattenere l’andatura, sta di fatto che dai 1900mt del rifugio fino ai 1200 mt. di fonte Astuni scendiamo in meno un’ora e mezza. Il paio di chilometri dalla fonte al parcheggio dove abbiamo lasciato l’auto filano veloci in leggera pendenza, e la scelta di percorrere il nastro di asfalto la mattina si è rilevato ora un successo strategico oltre misura; trovare l’auto al limitare del bosco, esattamente dove termina il sentiero è quasi un miraggio, non ha prezzo; i GPS ci dicono che per archiviare la pratica Serrone ci sono voluti poco più di 21 i chilometri, e si è dovuto superare un dislivello di circa 1300 metri. Abbiamo conosciuto altre montagne, il reticolo di sentieri che abbiamo calpestato si infittisce ancora ed un altro pezzo di parco è ora casa nostra. Un bel dieci a Giorgio che ha avuto il coraggio di concepire questo anello, un bel nove a tutti noi che nonostante il tempo che passa siamo sempre dei superbi camminatori.